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Gli storici dell’arte riconoscono di non riuscire a definire con chiarezza le opere di Pieter Brueghel (1525/30-1569), capostipite di una delle principali dinastie di pittori fiamminghi, la cui vita è avvolta nel mistero. Dopo la sua morte i suoi dipinti furono oggetto di contesa tra i collezionisti, specie tra coloro che avevano compreso l’essenza filosofica della sua straordinaria esperienza creativa, caratterizzata da un simbolismo ermetico quanto mai complesso e di difficile interpretazione.
A metà del Cinquecento i Trattati alchimistici era diffusi in tutta Europa, ma la pratica dell’Alchimia rimaneva una disciplina riservata agli iniziati che intraprendevano la “Via di mezzo” della trasformazione del piombo saturnino nell’Oro filosofale.
La trasformazione alchemica si doveva compiere per gradi sempre più elevati di combustione della mente razionale, il materiale grezzo da cui estrarre la Pietra filosofale con cui edificare la torre della conoscenza del Se.
Ogni stadio di trasmutazione della mente richedeva un progressivo distacco dagli aspetti deteriori dell’ego dell’intelletto che veniva in una prima fase contemplato per immagini simboliche per essere successivamente compreso (soluzione), assimilato (coagulazione) e infine sperimentato (tintura).
Il processo di comprensione dei simboli procedeva sincronicamente alle esperienza concreta della fine delle illusioni e delle tentazioni, dell’ignoranza e delle menzogne che sul piano spirituale equivaleva al Trionfo della Morte sulla libido universale, evento iniziatico a cui allude Brueghel in ogni parte della sua Grande Opera.